Titolo controverso, non è vero? Infatti in molti, soprattutto i non esperti del settore ma anche maestri di Karate-Do, ritengono che il kata sia solo un’inutile danza coreografica usata per qualche gara. In effetti, guardando le gare sportive con tecniche non necessariamente fatte bene, ma sicuramente fatte in maniera molto visuale, seguite magari da una cosa chiamata “bunkai” di cui è rimasto però solo il nome, sarebbe difficile pensare che il kata possa essere il miglior modo per imparare a combattere.

Facciamo un po’ di chiarezza.

Il Kata sportivo. Perché è inutile per il combattimento e perché non ha importanza?

Iniziamo col parlare di quello che si vede oggi nel mondo sportivo. Il kata è diventato un nome di qualcosa che conserva ben poco della sua origine, ma che tuttavia non mi sento di criticare a tutto tondo perché ha semplicemente assunto uno scopo diverso. Insomma, è un po’ come fare la carbonara vegana. Puoi anche continuare a chiamarla carbonara, ma non è una carbonara. Ecco, questo è ciò che è successo al kata sportivo. La sua funzione è cambiata, modificandosi in qualcosa che serve per mostrare, in un ambito competitivo chiuso, cioè con regole precise, le capacità atletiche di un praticante. Allo stesso modo, il bunkai, che letteralmente dovrebbe significare “smontare”, cioè analizzare le parti, è diventato una coreografia prestabilita atta solo a mostrare la precisione dei movimenti e la bravura atletica dei partecipanti, ma poco ha a che fare con il kata in sé. Dunque, ciò che al giorno d’oggi fa pensare al kata come totalmente inutile per il combattimento è, in effetti, abbastanza inutile per il combattimento, ma non va criticato in quanto tale. Al massimo, io criticherei il fatto che venga chiamato allo stesso modo. Esattamente come critico un ristorante che chiama carbonara una pasta fatta con margarina e zucchine.

Cosa è veramente il kata?

Per capire cosa sia un kata bisogna distinguere due aspetti: uno legato specificatamente alle arti marziali (non solo quelle giapponesi), e una più filosofica legata alle culture orientali, e specificatamente a quelle di Okinawa e del Giappone.

Iniziamo parlando dell’ultimo aspetto. Il kata non è un concetto che appartiene solo alle arti marziali. Esso è infatti qualcosa che si può ritrovare, come principio, in moltissime filosofie orientali, sia religiose che non, ed è legato alla disciplina e alla ripetizione di gesti atta a migliorare qualcosa, fino a raggiungere una teorica perfezione. Infatti, se andiamo indietro agli anni 50, già nelle industrie Toyota, dove Taichi Ohno e il Dr. Deming stavano costruendo il sistema Toyota Production, si parlava di Kata, all’interno della filosofia del Kaizen (cambiamento per il meglio), cioè una filosofia dove si applicavano continua pratica, ripetizione e osservazione al fine di migliorare continuamente e di poco a ogni iterazione. Vi ricorda qualcosa? Sempre nell’ambito della Toyota, troviamo anche un altro principio, noto come Jidoka, cioè automazione con un pizzico di umanità. Nonostante sia applicato ai macchinari industriali, la sua filosofia ha radici ben più profonde e legate alla cultura del luogo, che vede nella capacità di trasformare un gesto volontario in un gesto automatizzato ma fatto con cognizione di causa, la perfezione dell’esecuzione. Se ci si pensa, si tratta della base dell’apprendimento. In effetti, non dobbiamo pensare a cosa fare quando vogliamo camminare, lo facciamo e basta. Lo stesso quando guidiamo: all’inizio pensiamo a ogni dettaglio, dopo qualche mese siamo assolutamente capaci di scansare un cane che spunti all’improvviso, senza schiantarci sul marciapiede.

Perché questi concetti sono importanti? Se andiamo a guardare Okinawa, la patria di ciò che ha poi dato origine al Karate-Do, esistono kata per come fare il tè o su come farsi il letto. Questo ci dice che il kata nasconde non solo una memoria storica di un sistema di combattimento, ma una vera e propria filosofia di vita e approccio alla perfezione e all’ottimizzazione che si è diffusa in oriente.

Spostandoci invece sulle arti marziali, e dunque entrando nel vivo del titolo dell’articolo, bisogna ricordarsi che il Karate, originariamente Okinawa-te (mano di Okinawa) o ancora prima Tode (mano cinese), non erano uno sport, ma un sistema di lotta usato per uccidere. In questo contesto, penso sia abbastanza facile intuire che il kata non doveva essere solo una forma coreografica per impressionare il pubblico.

Il kata era infatti un mezzo (anche molto attuale, cosa che spiegherò alla fine) per imparare a combattere nel modo più efficace possibile in un combattimento vero, corpo a corpo, in uno scenario specifico di lotta. Ogni kata è come un’enciclopedia non scritta che contiene i principi di base che poi ciascun allievo del maestro doveva adattare alla sua situazione, per esempio altezza, prestanza fisica, velocità, rapidità e così via. Ebbene sì, non esiste un kata che va bene per tutti e che va fatto uguale per tutti. Non nella sua forma originale quanto meno. Ogni kata veniva studiato per situazioni specifiche, come combattere alla cieca, in un corridoio stretto, in condizioni di equilibrio precario.

Il kata è dunque una forma di addestramento di mente e corpo, ma non in senso filosofico. Si tratta di un mezzo di codifica della conoscenza di un maestro del combattimento (per esempio il bushi Matsumura che, probabilmente, di gente ne aveva uccisa parecchia a mani nude), che condensava la sua esperienza in una serie di movimenti efficienti ed efficaci per uccidere un avversario con un colpo solo. Alcuni maestri, forse esagerando un po’ (ma nemmeno troppo), dicevano che in ogni kata (quelli oggi chiamati avanzati, o per cintura nera), ogni singolo passo era un modo diverso di uccidere un uomo.

Dunque, per riassumere, il kata è una forma di memoria storica di tecniche codificate in sequenze che possano essere studiate autonomamente da un allievo. Un sistema perfetto per ottimizzare l’allenamento.

Come può dunque il kata essere utile per il combattimento?

La riposta a questa domanda è paradossalmente molto semplice. Per rispondere a questo quesito, e dunque capire perché (e in che modo) il kata è il cuore del karate e né rappresenta il miglior modo per imparare a combattere, bisogna fare un salto in avanti alle arti marziali praticate oggi. No, non sono sto giocando alla macchina del tempo. Semplicemente i principi che venivano adottati per il kata non sono diversi da quelli che si applicano oggi, ma hanno semplicemente un contesto diverso.

Ho una domanda: avete mai visto un boxeur che pratica i suoi 3 pugni? Sono una sequenza che ripete all’infinito, con un coach che gli offre dei bersagli e che apre un gancio in mezzo. Vi siete mai chiesti se quella sequenza sia “utile a un combattimento”? Probabilmente no, perché lo avete dato per scontato. Quello che sta facendo quel boxeur è un kata, né più e né meno. Il praticante di boxe non sta facendo altro che utilizzare una sequenza codificata di tecniche, ripetuta molte volte con l’intento di automatizzare il gesto, specie in risposta di uno stimolo preciso. L’unica differenza rispetto a un kata originale di Karate è che oggi è più facile avere un coach che ti faccia praticare (basta pagare), mentre allora i maestri c’erano quando possibile, ma dovevi allenarti da solo. L’altra grossa differenza è lo scopo. Il boxeur deve praticare delle tecniche che hanno un contesto chiuso, specifiche regole (e.g. non si colpisce sotto la cintura), condizioni specifiche (uno contro uno dentro un ring, con dei guantoni). Il combattente che praticava il kata avevo lo scopo di usare certe tecniche, per esempio un ipponken (colpo con un dito) piantato in un occhio, non per motivi sportivi o in contesti regolamentati.

Alla luce del paragone con i “drills” delle arti marziali sportive moderne, è possibile intuire come il kata fosse la stessa cosa ma per il combattimento vero. Si trattava di tecniche atte a cavare occhi, lussare spalle, perforare la trachea o far affondare una costola nel cuore dell’avversario, codificate in movimenti che, alla luce di anni di pratica, potessero diventare reazioni automatiche a un certo specifico stimolo.

Non per niente si dice che un kata non può essere appreso in una giornata. Si dice addirittura che ci vogliano uno o due anni per imparare un kata. Questo è facilmente intuibile dal fatto che fisiologicamente, ci si mette circa un mese per rendere qualcosa automatico (per esempio i gesti del guidare la macchina), e il tempo è da sommare se i movimenti sono diversi e compositi. Se si vuole reagire istantaneamente con una parata e un colpo mortale, quando si riceve un gancio, non ci si può aspettare di saperlo fare dopo avere imparato lo schema e avere allenato un muscolo a fare un movimento apparentemente senza senso. No, per imparare un kata, nel vero senso della parola, servono mesi o addirittura anni di pratica costante. Questo è il kata: ripetizione e automatizzazione del movimento.

Infine, il kata, specie se poi scomposto e allenato con attrezzi pesanti, diventa anche un modo di allenare la condizione fisica ottimale per quei movimenti.

Questo però non spiega ancora come il kata possa essere praticato per imparare a combattere. Come si fa?

Ci sono vari livelli a cui si può praticare un kata. Purtroppo, nella maggior parte delle scuole, il kata si impara prima dall’embusen (cioè lo schema) e dalle tecniche, e dopo gli si da il bunkai. La verità è che affinché un kata possa essere efficace, è necessario praticarlo con intenzione. Infatti, il collegamento neuromuscolare è fondamentale affinché un colpo alla gola sia veramente efficace. Praticare un kata senza sapere bene che cosa si sta facendo, senza metterci l’intenzione di abbattere un avversario, non permetterà nessun progresso nel combattimento. Un allenamento fatto come avviene nella maggior parte dei casi oggi, insegna il movimento e va bene per i contesti attuali, cioè imparare il controllo del corpo e magari partecipare a una gara, ma non insegna il combattimento.

Per imparare a combattere dal kata è necessario partire dallo scopo della tecnica, quello vero, provarlo prima con il “bunkai”, e dopo utilizzare il kata per immaginare quel combattimento e portare la tecnica con l’intenzione giusta.

Ma quindi il kata è ancora un ottimo modo per imparare a combattere, ma non come molti immaginano?

Esattamente. Se sono riuscito a chiarire cosa sia un kata in realtà, si può vedere come sia uno strumento molto valido per imparare a combattere, ma non nel contesto di un kumite sportivo, di uno sparring di boxe, o in match di MMA. Ognuno di quei contesti avrà i suoi “kata”. Il tipo di combattimento che si impara con il kata è quello che nessuno dovrebbe più aver bisogno di usare, al giorno d’oggi, e che ci si augura sempre di non dover usare. Per questa ragione la sua utilità è ormai estremamente ridotta e quindi, nel karate, rimane solo un ottimo modo per studiare cosa “conoscevano” gli antenati del karate, e un buon modo per allenare le capacità coordinative e avere delle movenze accattivanti con cui vincere una medaglia in una gara.

Cosa ne possiamo concludere?

Se sei appassionato come me del vero significato del kata, trova qualcuno che ne conosca uno o due studiati partendo dal bunkai avanzato e non dall’embusen, e inizia a praticarli con intenzione. Viceversa, se quel tipo di combattimento non ti interessa, allora accetta il fatto che ciò che in molti dicono, cioè che il kata non serva per il combattimento, sia vero.