Qualche ora fa mi trovavo ad aiutare Manuel Sensei nella sessione di esami di cintura di Karate-Do. Devo dire che mi sono trovato in particolare difficoltà su un aspetto: il fatto che tra gli allievi ci fossero i miei figli. La cosa paradossale è che la mia difficoltà è legata al cercare di non essere troppo severo e minuzioso, più che con gli altri, nell’esprimere la mia opinione, semplicemente perché con loro mi sento più libero di “alzare l’asticella”.
Per fortuna gli esami sono andati bene per tutti, in quanto tutti i bambini hanno mostrato ottimi progressi, impegno e determinazione, evidenziando dei miglioramenti rispetto a quando tutto è iniziato. Questa serata mi ha però fatto pensare a varie cose, non necessariamente legate al Karate-Do.
In questo articolo voglio quindi provare a raccontare sia alcune cose legate al sistema di gradi del Karate-Do moderno, sia ad alcuni aspetti che invece possono far parte della nostra vita di tutti i giorni. Di conseguenza, se non ti interessa la parte legata all’arte marziale, salta direttamente all’ultima parte dell’articolo.
Iniziamo con un po’ di contesto storico e spieghiamo alcuni dei più usati sistemi di grado basati sulle cinture.
Innanzitutto, c’è da dire che le cinture non fanno parte della tradizione originale dell’arte marziale di Okinawa. Ebbene sì, esse sono state adottate solo inseguito all’arrivo in Giappone e sono state principalmente usate grazie all’influenza di Jigoro Kano e del Judo. Le cinture colorate, infatti, erano già in uso in altre forme di arte marziale e sportiva del Giappone e vennero introdotte nel Karate-Do, come anche il Gi (l’uniforme bianca classica), solo in tempi relativamente recenti. Prima di allora, chi praticava Karate-Do, lo faceva in abiti comodi ma senza particolari uniformi o distinzioni, anzi la maggior parte delle volte lo si faceva in pantaloncini e a petto nudo.
Ma a cosa servono quindi le cinture (molti maestri amano ripetere che reggono semplicemente i pantaloni)?
Detto ciò, soprattutto quando il Karate-Do fu introdotto nelle scuole, fu necessario creare un sistema di classificazione della bravura e soprattutto della preparazione degli studenti. Questo era necessario perché normalmente si aveva un Sensei, cioè un maestro, e molti Senpai, cioè esperti e principali allievi del maestro che insegnavano e allenavano i vari discepoli.
Nel contesto giapponese, si potevano avere dei gruppi molto numerosi e i Senpai potevano cambiare anche molto spesso allievi. Pertanto, l’uso della cintura era principalmente quello di permettere a tali Senpai di sapere quali tecniche insegnare e quale livello aspettarsi.
Tuttavia, questo tipo di sistema non era uguale per tutti i dojo. Poteva quindi accadere che una cintura arancione che si allenava con il Sensei X, fosse equivalente alla cintura blu del Sensei Y, e alla cintura gialla del sensei Z.
Con l’avvento e la diffusione delle competizioni sportive, cominciarono a nascere maggiori standardizzazioni del livello tecnico atteso, per fare in modo che si potessero mettere in competizione gli studenti provenienti da diverse scuole e potessero, in qualche modo, essere considerati pari livello.
Quindi siamo arrivati al punto in cui possiamo sfoggiare il grado per definire quanto siamo bravi?
Non esattamente. Sebbene nel contesto giapponese, e in palestre più orientate alla competizione sportiva, il criterio descritto funzioni, non vale lo stesso per tutti. Infatti, esiste un altro modo per usare le cinture ed è quello legato al percorso personale. Pertanto, una cintura, non solo non è equivalente allo stesso colore di un altra palestra, ma addirittura potrebbe non essere equivalente neppure con la cintura dello stesso colore di un compagno di palestra.
La cintura, infatti, diviene un mezzo per permettere allo studente di sfidare se stesso, e di utilizzarla come marcatore di un progresso puramente personale. In questa visione, il prossimo passaggio di grado diventa l’obiettivo, e il fatto di raggiungerlo o addirittura superarlo, diventa uno strumento potentissimo di riscontro e motivazione.
Tra l’altro, ogni stile, federazione o palestra, usa sistemi diversi. Quelli più tradizionali vedono l’uso dei “KYU”, per i gradi inferiori e poi dei “DAN”, per quelli più alti (le cinture nere), mentre altri usano sistemi intermedi come mezze cinture o striscette da attaccare alla cintura. Questa è una novità ancora più recente e usata sostanzialmente per i bambini. Questo accade perché, se ci si attiene alla tradizione, i bambini iniziavano la pratica del Karate-do a scuola, e ogni anno o due aquisivano una cintura, arrivando così alla cintura nera approssimativamente all’età prevista. Tuttavia, nel mondo occidentale e soprattutto nelle palestre indipendenti, ci si trova bambini di ogni età e sicuramente con caratteristiche motorie e cognitive differenti. Insomma, non tutti vanno alla stessa velocità e non si può certo pretendere che ogni bambino migliori ogni anno di una quantità predefinita. Inoltre, usando solo le poche tradizionali cinture colorate, se un bambino iniziasse a 5 anni, potrebbe trovarsi ad avere la stessa cintura per diversi anni e questo potrebbe ledere la sua motivazione perché non vedrebbe un progresso.
Tuttavia, i bambini fanno progressi continui, semplicemente all’inizio hanno bisogno di sviluppare capacità generali e magari non necessariamente la tecnica specifica. Ma come si fa allora a dare un riscontro al bambino riguardo al suo progresso. Ecco quindi il motivo per mezze cinture e striscette.
Nello Shotokan, per esempio, un bambino deve fare 2 o addiritutura 3 esami (per un totale di 2 o tre anni) prima di arrivare alla cintura gialla. Nel Kyudokan, si fa l’esame anche per la bianca, partendo prima con le striscette azzurre. Quindi, un bambino piccolo o che è veramente alle prime armi, potrebbe prendere al suo primo esame una, due o tre striscette azzurre, prima di poter fare un secondo passo e raggiungere quindi la cintura azzurra. Lo stesso vale per le successive, gialla, arancione, verde, blu e marrone.
Perché questo è importante?
Ci sono dei motivi molto importanti per scegliere di usare questi sistemi, anche se spesso può anche diventare difficile scegliere la strategia giusta sul tema della motivazione. Ciò che sappiamo è che i bambini prendono l’attività fisica principalmente come un gioco in cui una parte del divertimento è sentire che stanno ottenendo qualcosa. Questo è un meccanismo naturale per l’essere umano, infatti, quando ci si pone di fronte a un obiettivo e si ottiene un riscontro, il cervello produce dopamina ed endorfina che aiutano a focalizzarsi e a resistere o addirittura il dolore (sia psicologico che fisico). In mancanza di queste due sostanze, il bambino o la bambina (ma vale anche per gli adulti) perdono motivazione e rischiano di “abbandonare”. La motivazione è un tema complesso, tuttavia alcuni schemi sono abbastanza consistenti. Per l’appunto, la mancanza di un’evidenza di progresso è una di quelle cose che aumenta enormemente il rischio di abbandono nello sport.
Dunque, sebbene un bambino di 5 o 6 anni possa non essere pronto tecnicamente per la prossima cintura, l’idea di usare uno strumento intermendio che vada a evidenziare gli ovvi progressi che ha fatto impegnandosi per un anno, è vitale per cercare di stimolare il percorso di crescita del bambino stesso.
Ma allora perché quel bambino ha preso la cintura e il mio no?
Diversi genitori si fanno spesso questo tipo di domande, perfettamente legittime e naturali quando si confrontano i propri figli con altri in palestra. Tuttavia, qui viene la parte probabilmente più difficile e complessa per il maestro, istruttore o allenatore che sia: la definizione degli obiettivi. Infatti, mentre è più semplice per un atleta già formato stabilire cosa vuole fare con il suo corpo e con l’arte marziale che pratica, per esempio arrivare alle olimpiadi, non è lo stesso per un bambino. Dunque, il sensei deve riuscire a immaginare e costruire un percorso totalmente individuale e proiettato al futuro per quel bambino, così da cercare di dargli l’opportunità di avere delle tappe intermedie sensate. Per esempio, partendo dall’età e dalla condizione fisica del bambino, il sensei potrebbe immaginare che una “cintura arancione”, per lui significhi raggiungere un certo grado di padronanza dei movimenti entro un certo tempo definito. Al momento di svolgere l’esame, le striscette e le cinture in mezzo rappresentano i passi intermedi per arrivare all’obiettivo, che è ovviamente più a lungo termine, e pertanto potrebbe valutare che abbia fatto uno, due o tre passi verso l’obiettivo. Ma come dicevo prima, tale obiettivo potrebbe essere completamente diverso per un bambino o bambina di 7 o 8 anni che ambisce alla stessa cintura arancione.
Quindi, quando di solito mi trovo a parlare di questo tipo di riscontri con genitori o amici che praticano la stessa arte marziale, cerco di sottolineare come si debba essere orgogliosi dei progressi ottenuti in maniera relativa, sfidando se stessi e la propria condizione di partenza, e non confrontandosi con schemi tradizionali che poco hanno a che fare con il lavoro che gli istruttori fanno coi bambini a livello individuale.
Ma quindi tutto questo cosa c’entra con chi non pratica Karate?
La risposta è molto semplice: molti che iniziano a praticare arti marziali vedono la cintura nera come un traguardo. Io stesso la vidi così all’inzio. Altri amano dire che sia un punto di partenza. Io preferisco dire che sia entrambi.
La cintura, qualsiasi sia il colore che ha, è la raffigurazione concreta di un obiettivo che ci poniamo per noi stessi e che qualcuno, in questo caso il sensei, ci aiuta a raggiungere. Il grosso del lavoro dobbiamo farlo noi, sudando in palestra. E per arrivare a quella cintura nera, dobbiamo fare passi e costruire solide basi che daranno valore a quel colore. Quando poi saremo arrivati alla cintura nera potremo guardare avanti e decidere quale sarà il prossimo passo, e anche indietro, riconoscendo i risultati, e i fallimenti da cui abbiamo imparato.
Se la cintura nera è l’obiettivo, ogni cintura nel mezzo diventa un punto di ancoraggio motivazionale che stimola quella dopamina che ci da il focus necessario per continuare a studiare quel kata o quella tecnica specifica, e che ci da qualche dose di endorfina che ci fa arrivare alla fine dell’allenamento nonostante manchi il fiato e ci si senta morire.
Quindi come divento una “cintura nera” di quello che desidero?
Cosa rappresenta la tua prossima “cintura nera”? Questa è la domanda che devi porti. Troppo spesso ho sentito persone, amici e non, parlare di cose che dicono di volere, ma poi magari non sanno bene cosa desiderano realmente. Non sanno definire cosa sia quella cintura nera che vogliono vestire, e quando finalmente lo scoprono, la vedono lontana, esattamente come una persona che inizia dalla cintura bianca, e quindi mollano oppure non iniziano neppure il cammino.
Eppure la soluzione è lì: tra te e la cintura nera ci sono quelle cinture colorate che ti permettono di costruire un cammino.
Dare a ciascuna di quelle cinture colorate un senso personale, una pietra miliare intermedia, qualcosa che non è confrontabile con gli altri e che è solo l’evidenza di un nostro progresso personale, ecco, questo è ciò che il sistema delle cinture (mezze o striscette che siano), può insegnarci per provare a ottenere i nostri risultati.